Para-philos e bombe kappa

“Denza Faradenza
La bokka de lä cokka
Grande love-ua and ribaua villa vida loca
Gusto rico dante
Pereto presto power
Karma denza purra kawa konnichiwa-ua”

Little Big, Faradenza

Eravamo sul ciglio del dramma già da un po’, ma non stavamo male. Le ossa non troppo scricchiolanti, il cuore tutto sommato integro.

Il problema era in primo luogo politico: il saggio Luis, di ritorno dai suoi viaggi in oriente, declamava leggendo da un librone brossurato benché malridotto: “O sole divino di Tabriz! Nessuno è sobrio, quando tu sei; atei e credenti sono ubriachi, asceti e libertini sono ebbri!” e nel frattempo la giunta aveva prosciugato i fondi Destinati al Disastro, e davvero non erano rimasti che i conti del puttaniere, e una manciata di tarli a rosicchiare il Grande Tabernacolo, nel quale ammuffivano lieti i resti del Divino Profeta.

Non c’erano storie rimaste da raccontare, dopo tutto. A furia di sedere nel loto, le ginocchia mi dolevano come trafitte da aghi spuntati, e quasi disperavo che mi sarei rialzato. Leggendo dal suo solito librone brossurato, benché malridotto, il venerabile Luis trionfante esclamava: “un corpo per metro quadrato di superficie utile ossia duecento corpi per fare cifra tonda. Corpi dei due sessi e di ogni età dalla vecchiaia fino alla più tenera età. “

Non capisco più nulla. Forse il salmodiare che si sente appena, nell’andirivieni crepuscolare, il mormorio di moltitudini, è invece il grido di un solo folle, posseduto da innumerevoli anime. Forse nella luce che si fa opaca, come polvere, corpuscoli capaci infine di fermarsi, di depositare la propria sostanza lattea sulla pietra nuda della cella monacale, sulla lussuriosa distesa di marmi della sala del trono, sulle piastrelle dozzinali dell’androne condominiale – scala B – forse infine è l’apocalisse che striscia quì e là. Forse Luis sta continuando a leggere, dal suo librone brossurato, ma molto, molto lontano, mentre le pupille stanche – le mie? – ormai da troppo tempo non fissano nulla, ma piuttosto si perdono, inerti, nel buio delle palpebre. “Ora Karl piangeva baciando la mano del fochista, poi prese quella mano screpolata e quasi priva di vita e la premette su una guancia, come se fosse un tesoro al quale doveva rinunciare”.

Eppure c’erano rivolte, da progettare. Lo ricordo con chiarezza: era mattino, e sui volti la determinazione stampava linee precise, contraeva mascelle, raccoglieva sopracciglia in rughe verticali, incise come da una lama. Si, c’era tutto: la rabbia, pulita, affilata, di chi ha ragione, e un piano. Che bello, che bello! Quasi mi commuovo ancora, al pensiero. E poi? Non dirmi che abbiamo perso, non ripeterlo, giuro che ti pesto forte e duro, giuro che ti sbatto a quel muro, e pianto il mio santo pugno contro il tuo immondo grugno. Questo, vedi? Questo genere di bicolore giusto/e/sbagliato, santo/e/sacrilego, questa roba di inestimabile correttezza, è finita in un marmellatone di tradimento, e compromesso. Sia dannata la bi-logica e tutte le sue giravolte. Sia dannato Dio Toreador e le sue Sante Veronicas. Ecco tutto. Io me ne sto seduto, e ho smesso da secoli di sperare che il Satori mi caschi sul cranio come un vaso di gerani dal sedicesimo piano.

Quello che c’è, è quello che c’è. E basta. Come ha detto il vecchio ebreo olandese, quello che costruiva occhiali, sempre lui. E anche tutti gli altri. E tanto non capirò, non capirete, finché non sarà consumato anche l’ultimo brandello di Umanità Residuale. Per quello siamo quì, a guardare lo spettacolo, no? Non leggerai queste parole, vero? Sono proprio in fondo a quello stupidissimo librone brossurato, sopravvissuto ai secoli, rinchiuso nello scrigno cardiaco di ogni Vero Credente. Non leggerai queste parole. Legioni di dèmoni te lo impediranno, le coorti del Pandemonio che è la girandola eterna, intorno all’Unico Punto Fermo, che è ancora, incidentalmente.

La fine.

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