Scritto sulla carne

Non si scrive su una pagina bianca, come diceva De Certeau.

La pagina bianca, solcata di inchiostro, diventa leggibile in ragione della familiarità, tacitamente presupposta, del cervello di chi legge con le lettere, le parole, le frasi.

Subito, queste fanno una differenza per chi può confrontarle con frasi, parole, lettere, organizzate in modo analogo, su altre pagine.

Imparare a leggere, è confrontarsi con l’illeggibile finché questo diventi leggibile. Accumulare lettere, parole, frasi, finché queste diventino il paragone di ogni possibile, futura leggibilità.

In questo senso, si scrive sempre su una pagina nera, già solcata da innumerevoli inchiostri, la cui traccia sopravvive alla memoria tematica, come una competenza.

Si scrive per chi sa, per chi può leggere.

In questo senso, si scrive per chi sa, e ciò che di nuovo si può dire dipende da questo comune intendere, da una distribuzione di senso condivisa, oltre la quale lo scritto diventa balbettio arcano e astruso.

Io e Umberto siamo amici da quando non sapevamo ancora leggere, né scrivere, amici da prima di saper parlare, e forse prima di saper camminare. In nessuno dei miei ricordi compare un attimo in cui non lo conoscessi. Per questo, ci capiamo ancora prima di mettere in fila le parole necessarie a capirci, e non di rado discorrendo percorriamo con passi diversi la stessa strada, godendo del non saperci soli.

In una sera qualunque, di fronte a un bicchiere di birra sarda, parliamo del mondo e delle cose, come sempre, e la discussione cade sulla novità epocale dell’epoca mediatica corrente. Parliamo di influencers, di coloro il cui mestiere consiste nell’essere visibili. In particolare, parliamo dei più famosi: Fedez pare abbia una brutta malattia, e come è d’uso le sue lacrime trattenute sono sullo schermo, a disposizione dell’universo.

Come si vive così, ci chiediamo. Come si vive in pasto alla moltitudine di occhi? E soprattutto, perchè?

Ciò che ho da spiegare, da far capire a colui che da sempre più di ogni altro ha saputo capirmi, è uno strano sospetto, una critica che deve muoversi acuta e antipatica, penetrare la simpatia che inevitabilmente mi ispira un giovane semplice e sincero, afflitto da un terribile male.

Vedi, dico, il problema non è l’essere umano. Certo, è difficile distogliere gli occhi. Lo spettacolo della famiglia Ferragni è totale: esso non si ferma di fronte alle doglie, di fronte alle lacrime, espone ed evidenzia i particolari più intimi. La lente instancabile segue ogni attimo quotidiano, ogni normalissima emozione di vite che somigliano a tutte le vite.

Non vi è alcunché di eccezionale, da vedere. Ecco una ragazza normale, un ragazzo normale, come ognuno è. Il gusto è lo stesso che si ritrova nel sapere i guai e le gioie del vicino di casa nel paesino. Un senso di comunità implicita, che l’avanzare brutale deterritorializzante della società industriale avanzata ci strappa nel nomadismo tardocapitalista di vite lanciate all’inseguimento di una realizzazione personale, di una vita decente, come se fosse normale.

Umberto mi guarda sornione, e capisco che il lessico mi ha preso la mano. Devo ripetermi, usando parole più solide. Questa, dico, è la logica di radioserva, che non cerca la novità, l’inconsueto, l’assurdo, l’opera d’arte sublime. Questo è il gusto semplice dei cazzi altrui. La familiarità che è potentissima forza aggregante. Questi ragazzi, dopotutto, li abbiamo visti crescere, e sperare, e vincere, e soffrire le normali sofferenze, di tutti, e cercare anche di cambiare il mondo, a loro modo.

E allora? Cosa c’è di pericoloso? Cosa c’è da sospettare? Forse che siano “finti”, come si dice nel lessico della barbarie televisiva, nei salotti di Uomini e Donne? Forse che la rappresentazione non coincida con la realtà? Ciò è semplicemente impossibile: troppo serrata è la marcia della rappresentazione, troppo invasiva la presenza della telecamera, per supporre una recita. Diciamo che essi sono esattamente ciò che si vede, esattamente ciò per cui si mostrano.

E allora? Allora, dico io, è proprio questo il trucco.

Perché nell’epoca della condivisione, il media non è la pagina, non è lo schermo. Il media è la carne, è la vita, e il messaggio è il prodotto. La merce è ovunque: è il trucco, è il vestito, è l’arredamento, è la forma di vita. Il prodotto è la vita stessa. Proprio che sia normale e vivo l’influencer, proprio che le sue esperienze siano genuine, reali, è ciò che introduce nelle nostre vite la merce che invade la loro.

L’influencer non è l’autore, non è il messaggio, è la pagina. Il capitalismo, che non può essere scritto sulla pagina – come disse Deleuze: esso è analfabeta, non conosce idee, né contenuti – può incidersi nella carne.

Tanto più vera, più viva, la carne, tanto più forte la scrittura, tanto più serrato il discorso senza parole né idee del capitale.

Separare la merce dalla carne ormai è impossibile. Il paralogismo del capitale è il farsi-merce della carne viva, del desiderio – onlyfans! Twitch! – la monetizzazione del divertimento come dell’appeal. E alla merce-come-vita, alla vita-come-merce rivolgiamo i nostri sforzi e le nostre speranze, il nostro arrapamento e il nostro disgusto, senza poterci districare in una forma di senso che elude gli strali dei vecchi filosofi arrugginiti e rancorosi, i distinguo concettuali, le distinzioni semantiche.

Guarda negli occhi questo ragazzo che soffre, guarda oltre quegli occhi, e vedrai al tempo stesso un essere umano e una psy-op della propaganda capitalista. Rifiutalo, e rifiuterai insieme l’empatia e la merce.

Se ti mancherà l’acume di una coscienza sottile, il taglio crudele di Debord – che già lo raccontava a dovere, prima di vederlo al suo massimo grado di sviluppo, il vampirismo dello spettacolo sulla vita – non vedrai il limite, e sarà semplicemente questa, la tua realtà, prima di ogni ragionamento o idea, la forma di vita che è la forma del consumo, e il consumo che è vita.

Ho capito. Dice Umberto. E’ vero.

E mi basta.

SCUSA

“Chiedo scusa a tutti quanti
perché non ho fatto quanto avrei dovuto
nella lotta di classe.
Non ho combattuto lo sfruttamento
ho prestato uguale servizio e uguale compassione
allo sfruttatore e allo sfruttato.
Ho pensato che la cultura, la mentalità, la personalità importassero
più della condizione materiale
o almeno uguale
e inconsciamente ho favorito chi era uguale a me
e cioè chi era già favorito.

Chiedo scusa a tutti quanti
perché non mi sono battuto sempre
perché non mi sono battuto abbastanza
perché ho pensato che rubare, uccidere, bloccare, sabotare
fossero violenza
e non ho visto che lo era anche la fame
che costringe a un salario da fame
e la marginalità
che spinge nella dipendenza
e la frustrazione
che spinge nella dipendenza
e l’ingiustizia
che affatica la mente e il cuore
e spinge nella dipendenza.

Chiedo scusa perché ho sostenuto
la libertà di ciascuno a stordirsi con palliativi
e non la lucidità di vedere la verità
e la forza di agire lucidamente.
Chiedo scusa perché ho insegnato
o almeno lasciato intendere
che Stato e Diritto fossero in qualche modo sinonimi
e Democrazia e Giustizia in qualche modo parenti.

Ma so già che non basta chiedere scusa
e nessuno è intitolato ad accogliere le mie scuse
a perdonarmi
perché non c’è perdono né assoluzione
non c’è vittoria, non c’è resurrezione

C’è solo quello che c’è, solo questo adesso
senza prima né dopo
senza lamenti né risate.
Quello che è rimasto.”

Nemici meccanici – Hate Dolls

Ho deciso che ti odio perchè mi annoio troppo.

Ho deciso che muori perché questa è una cosa importante che posso fare con la mia forza, e mi riguarda ma anche no.

“Mannaggia quando litigo con i miei amici e tiro Bourdieu per terra e poi alla fine il patriarcato sono proprio io, bello e cattivo come un pastore di cabilia ma almeno il coltello l’avevo lasciato a casa.”

Mica Buddha giocava a tressette. Ammazzava demoni con lo sguardo, un milione di crocifissioni e un frassino acuminato. Destino. Ti tocca. Come chi fa il tuffo nello Stige e non lo rivedono più. Invulnerabile alle stronzate che pensi e che dici. Figlio di una serpe come tutti i miei amici.

Scherzo, comunque. Io non ho mai dovuto leccare per mangiare, non ho mai dovuto succhiare per spruzzare, non ho mai dovuto sputare per strofinare, non ho mai dovuto pregare per iniettare. Sono un povero, piccolo, borghese, di quelli che ti sparano e poi chiedono scusa alla Santissima Trinità, di quelli che vogliono banconote di piccolo taglio e cocaina pura per farsi delle grasse risate alla faccia di.

Il grafo del desiderio era una scusa: bastava conoscere i livelli per capire che in fondo il girone infernale è solo quello di ritorno, e quando il coro grida forte “Libertà per Barabba”, e “più sbirri martiri” ti senti fortissimo, ma mamma poi china gli occhi e le tremano le mani il giorno dell’arresto, e ti senti una merda comunque.

Ogni ora in galera è la stessa ora. Niente redenzione: tutto perso. Niente assoluzione: tutto quello che arriva è compostato e sepolto in una discarica mefitica, eterna.

La vendetta è impossibile. Il colpevole non ha abbastanza sangue da cavare, non ha abbastanza pelle da strappare, non ha abbastanza ossa da spezzare, non ha abbastanza teste da tagliare.

E allora?

Ho deciso che ti ammazzo per ridere. Perché non so più farlo, e ogni volta che ci provo mi vieni in mente e le labbra mi si fanno amare.

Non ne ho più voglia, sai? Fai l’amore con qualcun altro. Conosco un tizio che ti fa quelle cosette che ti piacciono, se glielo chiedi. Con le candele nere e le maschere, con le tuniche e le chiese sconsacrate e i mitra e i documenti falsi. Conosco uno che ti fa quelle cosette che ti piacciono, se glielo chiedi. Con la lingua e le fruste e i conti crittati alle Cayman.

Sei nuovo nel blocco? Ora ti facciamo fare un giro noi, non ti preoccupare. C’è una formalità, però.

Devi morire, prima.

Para-philos e bombe kappa

“Denza Faradenza
La bokka de lä cokka
Grande love-ua and ribaua villa vida loca
Gusto rico dante
Pereto presto power
Karma denza purra kawa konnichiwa-ua”

Little Big, Faradenza

Eravamo sul ciglio del dramma già da un po’, ma non stavamo male. Le ossa non troppo scricchiolanti, il cuore tutto sommato integro.

Il problema era in primo luogo politico: il saggio Luis, di ritorno dai suoi viaggi in oriente, declamava leggendo da un librone brossurato benché malridotto: “O sole divino di Tabriz! Nessuno è sobrio, quando tu sei; atei e credenti sono ubriachi, asceti e libertini sono ebbri!” e nel frattempo la giunta aveva prosciugato i fondi Destinati al Disastro, e davvero non erano rimasti che i conti del puttaniere, e una manciata di tarli a rosicchiare il Grande Tabernacolo, nel quale ammuffivano lieti i resti del Divino Profeta.

Non c’erano storie rimaste da raccontare, dopo tutto. A furia di sedere nel loto, le ginocchia mi dolevano come trafitte da aghi spuntati, e quasi disperavo che mi sarei rialzato. Leggendo dal suo solito librone brossurato, benché malridotto, il venerabile Luis trionfante esclamava: “un corpo per metro quadrato di superficie utile ossia duecento corpi per fare cifra tonda. Corpi dei due sessi e di ogni età dalla vecchiaia fino alla più tenera età. “

Non capisco più nulla. Forse il salmodiare che si sente appena, nell’andirivieni crepuscolare, il mormorio di moltitudini, è invece il grido di un solo folle, posseduto da innumerevoli anime. Forse nella luce che si fa opaca, come polvere, corpuscoli capaci infine di fermarsi, di depositare la propria sostanza lattea sulla pietra nuda della cella monacale, sulla lussuriosa distesa di marmi della sala del trono, sulle piastrelle dozzinali dell’androne condominiale – scala B – forse infine è l’apocalisse che striscia quì e là. Forse Luis sta continuando a leggere, dal suo librone brossurato, ma molto, molto lontano, mentre le pupille stanche – le mie? – ormai da troppo tempo non fissano nulla, ma piuttosto si perdono, inerti, nel buio delle palpebre. “Ora Karl piangeva baciando la mano del fochista, poi prese quella mano screpolata e quasi priva di vita e la premette su una guancia, come se fosse un tesoro al quale doveva rinunciare”.

Eppure c’erano rivolte, da progettare. Lo ricordo con chiarezza: era mattino, e sui volti la determinazione stampava linee precise, contraeva mascelle, raccoglieva sopracciglia in rughe verticali, incise come da una lama. Si, c’era tutto: la rabbia, pulita, affilata, di chi ha ragione, e un piano. Che bello, che bello! Quasi mi commuovo ancora, al pensiero. E poi? Non dirmi che abbiamo perso, non ripeterlo, giuro che ti pesto forte e duro, giuro che ti sbatto a quel muro, e pianto il mio santo pugno contro il tuo immondo grugno. Questo, vedi? Questo genere di bicolore giusto/e/sbagliato, santo/e/sacrilego, questa roba di inestimabile correttezza, è finita in un marmellatone di tradimento, e compromesso. Sia dannata la bi-logica e tutte le sue giravolte. Sia dannato Dio Toreador e le sue Sante Veronicas. Ecco tutto. Io me ne sto seduto, e ho smesso da secoli di sperare che il Satori mi caschi sul cranio come un vaso di gerani dal sedicesimo piano.

Quello che c’è, è quello che c’è. E basta. Come ha detto il vecchio ebreo olandese, quello che costruiva occhiali, sempre lui. E anche tutti gli altri. E tanto non capirò, non capirete, finché non sarà consumato anche l’ultimo brandello di Umanità Residuale. Per quello siamo quì, a guardare lo spettacolo, no? Non leggerai queste parole, vero? Sono proprio in fondo a quello stupidissimo librone brossurato, sopravvissuto ai secoli, rinchiuso nello scrigno cardiaco di ogni Vero Credente. Non leggerai queste parole. Legioni di dèmoni te lo impediranno, le coorti del Pandemonio che è la girandola eterna, intorno all’Unico Punto Fermo, che è ancora, incidentalmente.

La fine.

Backrooms Hell & the Pandemonium Paradox Paradigma

Come si costruisce un inferno?

Si potrebbero fare molte battute, ma preferisco una ricetta, e un esempio. Sarà un caso di infernologia applicata, un carotaggio del funzionamento culturale nell’età della sua polverizzazione memetica. (Sullo sfondo, la dialettica degli infiniti che lombrica inosservata, rosicchia un osso di terrore, eccetera.)

Come si costruisce un inferno?

Prendi un pezzo della realtà e ripetila all’infinito in ogni direzione, e poi ripetila all’infinito nel tempo per l’eternità. Prendi ogni singolo dettaglio e rendilo assoluto: ovvero, riduci ogni dimensione percettiva ad un singolo elemento nello spettro.

Prendi le Backrooms: le abbiamo costruite per scherzo, e sono risultate essere un esempio elegante di una precisa visione infernale.

If you’re not careful and you noclip out of reality in the wrong areas, you’ll end up in the Backrooms, where it’s nothing but the stink of old moist carpet, the madness of mono-yellow, the endless background noise of fluorescent lights at maximum hum-buzz, and approximately six hundred million square miles of randomly segmented empty rooms to be trapped in
God save you if you hear something wandering around nearby, because it sure as hell has heard you

La ragione è semplice, e possiamo rintracciarla segmentando il meme con una certa precisione.

Innanzitutto, la condizione: If you’re not careful and you noclip out of reality in the wrong areas.

Il linguaggio è una cosa meravigliosa, perché permette una composizione di assunti multipla e complessa nello spazio di un sintagma. “Se non stai attento” – tu, proprio tu, lettore, in un momento di disattenzione. La prima condizione è un’uscita dalla condizione di sicurezza e controllo: questa è la condizione principe di ogni storia che si rispetti. Il primo passo è fatto: che sia la selva oscura, o il ramo sbagliato di un incrocio imboccato sbadatamente, ecco la svolta kairotica e imprevista. Per quanto tuttavia la prima condizione sia immediata e quotidiana, la seconda condizione è impossibile, e soprattutto paradossale. Che cosa significa “noclip out of reality”? Significa che la realtà non è reale, dal momento che in essa è possibile un’azione il cui senso è dato solo alla condizione di muoversi in un ambiente virtuale.

Si arriva all’illuminazione o all’inferno nello stesso modo, ovvero attraversando un paradosso. nella Logica del senso Gilles Deleuze dichiara: “Bisognerebbe essere troppo “semplici” per credere che il pensiero sia un atto semplice, chiaro a se stesso, che non ponga in gioco tutte le potenze dell’inconscio e del non senso nell’inconscio”, e ancora “I paradossi di significazione sono essenzialmente l’insieme anormale (che si contiene come elemento o contiene elementi di tipo diverso) e l’elemento ribelle (che fa parte di un insieme di cui presuppone l’esistenze e appartiene ai due sottoinsiemi che determina). I paradossi di senso sono essenzialmente la suddivisione all’infinito (sempre passato-futuro e mai presente) e la distribuzione nomade (ripartirsi in uno spazio aperto, anziché ripartire in uno spazio chiuso). Ma in ogni modo, hanno la caratteristica di andare in due sensi contemporaneamente e di rendere impossibile un’identificazione”.

Le Backrooms sono l’epitome dell’identificazione impossibile: Sono le stanze dietro, senza che esista un “fuori” dal quale gli squallidi muri gialli le separino, come non c’è un qualcosa che giustifichi il “dietro” al quale il nome si riferisce: solo approssimativamente cento milioni di miglia quadrate di stanze segmentate randomicamente, e vuote.

La monotonia assoluta le prova di un “quì” definito, nel quale non c’è niente se non la follia. Quel “nothing but” è diverso dal “qualcosa”, è semplicemente un non-niente, perché in se resta indefinito eppure apparente. L’odore di fondo delle Backroom è un odore sbagliato, di moquette marcita, il suono delle backroom è il suono delle lampade al neon, Il suo colore è la follia del mono-giallo. La qualità leggermente nauseante di ciascuno di questi fastidiosi dettagli è amplificato fino alla mostruosità dal ripetersi infinito, dal suo esserci null’altro, per migliaia di chilometri, intorno: lo spettro di ogni sensibilità, ogni suono, ogni colore, ogni odore ridotto a un’unico particolare, eppure al più penetrante e disgustoso dei particolari immaginabili.

Le Backrooms sono innaturali e disfunzionali, né dentro né fuori, sono un glitch della realtà stessa. In esse, non c’è nessuno, ma non si è soli: e anche se la solitudine è terribile, la presenza inquietante di un “altro” fantasmatico è peggiore.

Come si costruisce un inferno?

Non è in fondo difficile. Basta prendere un frammento di qualcosa che non sia quì né lì, una sensazione di disagio ambigua, alla quale sia difficile assegnare un senso, e renderla eterna. O almeno questa è la regola della produzione di inferni nell’epoca memetica. Si potrebbe guadagnare un po’ di prospettiva comparando le Backrooms all’inferno di Milton:

Su quell’atroce, aspro, diserto sito;
Carcere orrendo, simile a fiammante
Fornace immensa; ma non già da quelle
Tetre fiamme esce luce; un torbo e nero
Baglior tramandan solo, onde si scorge
La tenebrosa avviluppata massa
E feri aspetti e luride ombre e campi
D’ambascia e duol, dove non pace mai,
Non mai posa si trova, e la speranza
Che per tutto penétra, unqua non scende.
Quivi è tormento senza fin, che ognora
Incalza più, quivi si spande eterno
Un diluvio di foco, ognor nudrito
Da sempre acceso e inconsumabil solfo.

Qui il paradosso è la luce buia, il fuoco nero, inestinguibile. Sempre l’immensità, sempre il deserto, sempre l’asprezza, come quella dantesca. Ma nel confronto con le Backrooms il Pandemonio impallidisce.

Il vero orrore, rispetto alle fiamme dell’inferno, alle quali si è consegnati per la disperazione perenne da una volontà suprema e legiferante, è la futilità assoluta. Non vi sono diavoli né dei, a confermare la giustizia dei destini umani e sovrumani al di là della realtà quotidiana. Anzi, la realtà quotidiana stessa, con le sue pretese di senso immediate, con i suoi piccoli gesti e le sue piccole gioie, viene smentita. Non è altro che una copertura sottile, una virtualità fra le altre, e appena dietro, appena più in là, si stendono corridoi infiniti che non portano da nessuna parte, e interi eoni di moquette putrida, stanze per uffici che non esistono, costruiti da nessuno, eppure non deserti.

Attenzione, dunque, a non distrarsi, a non vagare nelle aree sbagliate.

L’inferno del presente si stende appena al di là delle aree programmate. Basta un piccolo noclip fuori dal presente, dal reale, ed eccolo. Infinito, disgustoso, eterno.

Benvenuti nelle Backrooms.

Sam & Sara

“Ciò che è storto non si può raddrizzare
e quel che manca non si può contare.”

A volte mi chiedi: a cosa serve? E io fingo di non sapere la risposta, e invece so che non serve a nulla. La differenza fra le due cose c’è, ma è minuscola: nel non sapere servirebbe cercare, nel non servire, cosa cercheremmo? Forse un modo di dimenticare.

Ecco, così è fra il maestro e l’allievo, così è fra il giovane e il vecchio: l’uno cerca nell’altro il sapere, l’altro nell’uno l’oblio.

“Il saggio ha gli occhi in fronte,
ma lo stolto cammina nel buio.
Ma so anche che un’unica sorte
è riservata a tutt’e due.”

Quando ero giovane fui colto da una visione: mi allontanai dagli amici, vidi nell’ombra di un vecchio albero la mia tomba, in attesa. Capii che la mia strada era circolare, che avrei passato il mio tempo a camminare in tondo. Non avevo ancora le parole per dirlo, ma la sensazione era chiara: nulla di ciò che esiste è, alla maniera di ciò che sembra essere, quando tagliamo con la finta lama dell’opinione il vero dal falso.

Una domanda mi è stata rivolta, venti ore fa: “mi sembra che il tuo pensiero sia affine al pensiero debole, che ne dici?”. Eppure secondo il concetto il pensiero non è misurato in forza o in debolezza. Solo la sua torsione manifesta la discrepanza, il desiderio. La potenza assoluta, il vuoto abissale, sono entrambi oltre il pensiero, e così l’impotenza e il trauma rimangono nascosti al di sotto di esso.

Ho continuamente ottime idee: pensavo ad esempio che se non si può partire dal concetto, si potrà partire dalla massa: una vera schizoanalisi comincia mettendo Parmenide a testa in giù, dichiarando che l’Uno non esiste, che il Soggetto non esiste, che sempre c’è una collezione. C’è chi ha fatto cose del genere, già: ottimo lavoro, Badiou, con la nozione di Situazione. Ma non ancora fino in fondo, no: nel trascendentale si annida ancora un intelletto che conta-per-uno: un operatore che è già uno prima del conto. Si tratta di fare un salto più oltre, dopo tutto.

Mi dispiace non poter offrire uno schema. Se vuoi, portami i tuoi e io li strappo. Quando qualcosa raggiunge la maturazione marcisce. Quando il sistema è costruito, esso crolla. L’enantiodromia universale non è una legge, è solamente ciò che accade al di là e al di quà di ogni legge. Non si può legiferare il paradosso senza rendere paradossale il legiferare eccetera.

Un modo corretto, ma anche qui non fino in fondo, è quello che Agamben mi ha detto una volta: immaginare la rivoluzione come un passo di danza. Ecco, un atto gratuito. Ma che cos’è un’atto di danza? Naturalezza deliberata? Rileggerò Barba, o magari Delsarte, o Bene, e anche lì ritroverò incessantemente il paradosso.

Soprattutto nella scienza del paradosso, che è arte, occorre essere istruiti. Ma questo genere di istruzione distrugge. Come il Chi Kung, mira al risultato come originario, e presume che si sia già stati prima di essere – Platone la risolve con la metempsicosi, e nel momento in cui si pensa che essa sia innecessaria si sottrae alla storia della Metafisica tutto un certo sapore.

La verità è che se pensate che il pensiero, la coscienza eccetera siano edificanti, siete folli. Se pensate che la vita sia un valore assoluto, siete folli. Se pensate che il mondo sia reale, siete folli. Se pensate che la verità sia dicibile siete folli. La verità è che la verità è che.

“Una mosca morta guasta l’unguento del profumiere:
un pò di follia può contare più della sapienza e dell’onore.”

Esergo

Da qualche parte, su un pianeta qualunque di una galassia qualunque, nelle budella elettroniche di un server qualunque, un certo quantitativo di energia viene speso per mostrarti questo.

Si potrebbe dire che nulla succede per caso, oppure che tutto succede per caso: dal punto di vista di chi scrive, ciò non farebbe alcuna differenza. Intendiamoci: “caso” è solo una funzione epistemica, vale a dire il segnaposto di una scrollata di spalle e di un’ammissione di ignoranza. O no? Una buona questione dalla quale partire.

Il motivo è che non so procedere se non all’indietro, non so costruire se non scavando abissi. Per questo scelgo il nome di quella casa che in realtà è il quartier generale del senza-quartiere, la risultanza della ribellione nella forma di contro-vetta, l’inversione della superbia.

Che cos’è il diabolico, dopo la morte di Dio? E davvero ci siamo fermati a questo: alla putrescenza di Dio? Basta annullare il Tutto per annullare lo spettro del Niente? Ovvio che no. Il Niente è ciò che annienta, e il nulla è ciò che annulla. Ma c’è ancora un residuo: quelle tre lettere accentate di troppo: il “ciò”. Non c’è niente che annienti nell’annientamento: solo dell’annientato si può parlare. E che cos’è questo annientato, questo precipitato? L’ex portatore-di-luce, creato per essere un culmine di splendore, non può essere ucciso.

Nella sua massima ribellione, nella sua suprema disobbedienza, la punizione può arrivare al massimo a un rovesciamento cruciale. E nella ricerca della luce più buia, occorre sempre ritornare alla letteratura, a rileggere le dichiarazioni crudeli del principe del Paradiso Perduto:

“Ma non io per quell’arme, e non per quanto
L’ira del vincitor su me s’aggravi,
Non io mi pento o cangio: invan son io
Di fuor cangiato, il cor lo stesso è sempre;
Del mio spregiato merto ivi entro impressa
Altamente ho l’ingiuria, hovvi confitto
Il fero sdegno che a lottar mi spinse
Con quel Possente. E che! Potei pur trarre
Contr’esso in campo innumerabil’oste
Di congiurati valorosi Spirti
Che il regno suo dannavano, che a lui
Me preferìan, che di virtù, d’ardire
Diero alte prove memorande incontro
Gli estremi sforzi suoi, che sugl’immensi
Lassù celesti campi in dubbia lance
Tenner vittoria e gli crollaro il trono!
Perduto è il campo, e sia: perduto il tutto
Dunque sarà? Quell’invincibil, fermo
Voler ci resta ancor, quel di vendetta
Fero desìo, quell’immortal rancore
E quel coraggio che non mai s’abbatte,
Che mai non si sommette. E che altro è mai
L’essere invitto ed invincibil? Questo
Vanto la rabbia sua, la sua possanza
No, non avrà da me. Ch’io grazia chieda?
Ch’io mi prostri al suo piè? che qual mio Nume,
Qual mio Signor lui riconosca e onori,
Lui che il terror di questo braccio mise
Testè del regno in forse? Ah! questa invero
Fora viltà, fora ignominia ed onta
Peggior della caduta.”

Si badi: non siamo qui a ricapitolare il coraggio fine a se stesso, lo spregio diabolico e demoniaco. Questo, tutto questo, è solo un pretesto, come lo è la ribellione.

Posso spiegarlo in un altro modo: immagina un labirinto, antico, di quelli con una sola spira, che conduce vorticosa dall’ingresso al centro, dove si trova un mostro. A che pro costruire un labirinto simile? Per tenere dentro il frutto del tradimento nei confronti del divino, del sacrilegio. Il labirinto è una preghiera, è l’opposto di un teorema matematico: la via più complicata fra due punti.

Ora, immagina di rovesciare come un calzino quel labirinto, di modo che il fuori sia dentro, il dentro sia fuori: ecco, che infine troverai rappresentata la caverna:

Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l’ingresso aperto alla luce per
tutta la lunghezza dell’antro; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e
guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena. Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un
fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un muricciolo,
come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli».
«Li vedo», disse.
«Immagina allora degli uomini che portano lungo questo muricciolo oggetti d’ogni genere sporgenti dal margine, e
statue e altre immagini in pietra e in legno delle più diverse fogge; alcuni portatori, com’è naturale, parlano, altri
tacciono».
«Che strana visione», esclamò, «e che strani prigionieri!».
«Simili a noi», replicai: «innanzitutto credi che tali uomini abbiano visto di se stessi e dei compagni qualcos’altro che
le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna di fronte a loro?» «E come potrebbero», rispose, «se sono stati
costretti per tutta la vita a tenere il capo immobile?» «E per gli oggetti trasportati non è la stessa cosa?» «Sicuro!».
«Se dunque potessero parlare tra loro, non pensi che prenderebbero per reali le cose che vedono?» «è inevitabile».
«E se nel carcere ci fosse anche un’eco proveniente dalla parete opposta? Ogni volta che uno dei passanti si mettesse a
parlare, non credi che essi attribuirebbero quelle parole all’ombra che passa?» «Certo, per Zeus!».
«Allora», aggiunsi, «per questi uomini la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti».
«è del tutto inevitabile», disse.
«Considera dunque», ripresi, «come potrebbero liberarsi e guarire dalle catene e dall’ignoranza, se capitasse loro
naturalmente un caso come questo: qualora un prigioniero venisse liberato e costretto d’un tratto ad alzarsi, volgere il
collo, camminare e guardare verso la luce, e nel fare tutto ciò soffrisse e per l’abbaglio fosse incapace di scorgere quelle
cose di cui prima vedeva le ombre, come credi che reagirebbe se uno gli dicesse che prima vedeva vane apparenze,
mentre ora vede qualcosa di più vicino alla realtà e di più vero, perché il suo sguardo è rivolto a oggetti più reali, e inoltre,
mostrandogli ciascuno degli oggetti che passano, lo costringesse con alcune domande a rispondere che cos’è? Non credi
che si troverebbe in difficoltà e riterrebbe le cose viste prima più vere di quelle che gli vengono mostrate adesso?» «E di
molto!», esclamò.
«E se fosse costretto a guardare proprio verso la luce, non gli farebbero male gli occhi e non fuggirebbe, voltandosi
indietro verso gli oggetti che può vedere e considerandoli realmente più chiari di quelli che gli vengono mostrati?» «è
così », rispose.
«E se qualcuno», proseguii, «lo trascinasse a forza da lì su per la salita aspra e ripida e non lo lasciasse prima di averlo
condotto alla luce del sole, proverebbe dolore e rabbia a essere trascinato, e una volta giunto alla luce, con gli occhi
accecati dal bagliore, non potrebbe vedere neppure uno degli oggetti che ora chiamiamo veri?» «No, non potrebbe,
almeno tutto a un tratto»

L’ovvio non è ovvio: la caverna è il labirinto al contrario. Quanto ci si può trovare confusi e stralunati, uscendo dalle illusioni! L’illuminismo è una violazione crudele del senso di familiarità pacifica dei riti e dei lari. Il crudele Lucifero è portatore di luce, e scavatore di abissi allo stesso tempo. Egli afferma la prima verità, viola la pace del silenzio divino, che è solo armonia, e per primo fa risuonare l’innegabile consequentia mirabilis: se la Legge non può essere contestata, dunque può essere contestata, e la contestazione soltanto punita, mai ridotta a nulla. E con la stessa mossa si guadagna la sua immortalità, e la trasforma in dannazione, da gratuità che era.

Che farne, da quel punto in poi? La soluzione è la stessa, che il mostruoso sia dentro o fuori: costruisci un labirinto, un gioco di specchi, una girandola di mistificazioni che ci tenga dentro, o fuori. E non è detto che non sia un atto di misericordia: a chi scrive si stringe già lo stomaco, immaginando l’effetto della Verità non mistificata sulla pelle di chi non è preparato a sufficienza.

E allora, perché? Perché c’è ancora un server, da qualche parte sulla superficie del globo, che ronza di energia incessante, perché questi segni arrivino ai pixel del tuo schermo, per portarti queste parole, che equivalgono nell’intenzione ad un invito, a una incitazione, a un terribile caustico gomitolo, a uno spintone accecante?

Perchè no?

Ed è esattamente con la gratuità di chi nel rovesciamento ha perso tutto tranne il desiderio di non perdere che qui si scatenerà l’inferno, un anello alla volta.